The work of Simone Cametti is structured with exemplary gestures creating a personal reflection on space and time, a performative research that is not lost in the aleatory nature of the action, but produces precious testimonies that strongly convey his crystalline personality. The duration evoked in his works echoes the words of Peter Handke for the Gedicht an die Dauer (To duration): «it is my redemption, it lets me go and be».
Umberto Palestini
LA GOCCIA DI SIMONE CAMETTI
Lui sembra non sembra dargli troppo peso. Non parla volentieri di quello che fa, ma quando succede capita che sorrida, dicendo che ormai è diventato una ricerca di modi strani con cui rischiare la vita, che le idee gli vengono guardando il muro e che pensa per mesi ai titoli.
Sembra un idraulico o un elettricista, comunque non un intellettuale, tanto che le sue azioni sono fatte di un’operatività così elementare da lasciar interdetti. Fa delle cose.
Pochi giorni fa è entrato per l’ultima volta, dopo mesi di incursioni dalla finestra, in un palazzo abbandonato di Roma, uno dei tanti. Ha raccolto tutti i neon trovati e li ha collegati in sette blocchi con dei magnetotermici. Poi li ha accesi. Alle due di notte, prima uno, poi l’altro e via così fino all’ultimo. Dopo pochi minuti il sovraccarico ha fatto scattare gli interruttori e la luce è saltata. Nove piani di nero in cui, senza alcun preavviso, appare una luce, che cresce e poi sparisce di nuovo. Come una stella cadente, un bolide appunto, come il titolo dell’azione. Se non ci fosse documentazione chi potrebbe credere di averlo visto? Potrebbe essere stata un’allucinazione, un sogno o un miracolo.
Nel 2017 ha lavorato sulla figura di Tina Allori, una cantante degli anni ’30 che scrisse la meravigliosa canzone “Potessi rivivere la mia vita”. Dopo un po’ di ricerche è andato in Norvegia, a Larvik, nella cava da cui proviene il marmo della lapide di Tina, amorevolmente scelto dal marito, e lì ha fatto risuonare, in quello spazio immenso e deserto, la canzone. La più bella preghiera laica che si possa dedicare ad una persona. Lì da dove proviene l’oggetto che sancisce e attesta la tua fine, io porto il tuo desiderio di non finire, come lasciando il cerchio un attimo prima che si chiuda.
A Borca di Cadore Simone Cametti è stato invitato nel 2015 per un progetto di residenza di Dolomiti Contemporanee. Nella colonia Eni, ormai dismessa e voluta da Enrico Mattei, Simone c’è andato con la famiglia e ha fatto quello che nessuno avrebbe fatto ma che tutti sapevano necessario. Ha rifatto gli allacci di acqua, gas ed elettricità e ci ha fatto le vacanze con camper, compagna e bambini. In accademia, dove insegna, gli chiedono: “Ma quindi farsi le vacanze è arte?”. Lui sospira. Ha restituito un luogo al suo scopo, restituendogli quella presenza umana semplice che reclamava da tempo.
Poi dipinge paesaggi. Li dipinge veramente. Ormai dal 2013, quasi in solitaria, sale in montagna col camper carico di taniche d’acqua, idrodiffusore e vernice per piante (?!) per restituire ai prati dell’Appennino quel verde che il sole estivo gli ha tolto. Le foto che ne risultano lasciano perplessi. Sembrano una presa in giro. Sono foto di paesaggi. E basta. Belli, d’accordo, ma sono solo foto di paesaggi. Simone si è preso il tempo che nessuno, con le tecniche di fotoritocco e post produzione ora disponibili, si prenderebbe. Basterebbe un click per avere un bel verde “naturale” e un’immagine perfettamente verosimile, ma lui vuole rivedere il nascere di quel verde, che il colore sia quello dell’erba quando è fresca, restituendo alla fotografia quella dignità di impronta della realtà che ha avuto all’origine e che ora si è così sfumata. È un gesto faticosissimo e impercettibile, forse ancora più faticoso proprio per questo, perché l’esito è così fragile e naturale da non concedergli nemmeno la soddisfazione di dire “che cosa grande che ho fatto!”.
All’Expo del 2015 ha masticato per delle ore un favo, ingerendo una quantità tale di miele da rischiare una crisi glicemica, per tirarsi fuori di bocca un po’ di cera con cui fare sei candele. Al lavoro e al sacrificio delle api, che raccolgono polline e creano materia, lui aggiunge il suo, perché non si perda quella possibilità, perché quella potenza diventi atto, luce e calore. Un gesto talmente primordiale da essere quasi incomprensibile. E sempre il lavoro delle api è al centro dell’azione sul percorso della battaglia di Montecassino. Un luogo carico di storia e doloroso vuoto, in cui Simone ha voluto porre un piccolo e impercettibile segno di ricostruzione installando un favo e la relativa colonia di api in una teca di vetro aperta, un piccolo popolo dedito al costruire una comunità, che con il suo fare sottile e ronzante feconda il territorio tutto intorno. Invisibile e necessario.
In Europa Moon, che nel 2014 gli è valso la vittoria del Premio Terna, ha affiancato le foto di due laghi ghiacciati, uno in Abruzzo e uno nel New Hampshire, e ad ognuna ha aggiunto degli auricolari con una registrazione. Trovato il lago ghiacciato ha fatto quello che farebbe chiunque. Ha cominciato a gettarvi sopra dei sassi. E dagli auricolari si sente il rumore del rimbombo in acqua dei sassi che sbattono sulla superficie. Un lavoro di una semplicità quasi offensiva. Quale stupido salirebbe sulla superficie di un lago ghiacciato, ignorando lo spessore del ghiaccio, per farci dei buchi, metterci dei microfoni per registrare il rumore in acqua dei sassi che ci lanci sopra? Chi rischierebbe un bagno in un lago ghiacciato solo per questo? Neanche lui, se non intuisse che quei suoni sono l’eco di una vita che quella superficie chiede, che chiunque guardi una superficie desidera e spera. Una presenza come quella di un pesce che infrange la superficie dell’alba e ti ricorda in un istante di un mondo che esiste anche senza di te.
Nel 2013, per qualche motivo, entra nel cimitero di Ascoli Piceno, di notte, va verso i colombari con i lumini accesi e comincia a spegnerli, ne lascia accesi solo alcuni. Se ne va, torna dopo mesi e compone con i lumini lasciati accesi, in modo incontrovertibile, la parola AMO. Ci sono voluti mesi per trovare quella parola, così semplice, così naturale e terrificante da esser pronunciata sempre con fatica. Lui l’ha riportata lì, dove veglia la memoria, nel buio e nel silenzio. Restano delle foto.
Nel 2012 al Castello Colonna di Genazzano, sul ponte pedonale che introduce al complesso, si è messo, armato di flessibile, mazzuolo e scalpello, a rimuovere un po’ di sampietrini sulla linea di margine. Poi li ha ricollocati un po’ più all’interno della carreggiata, lasciando un messaggio morse: SOS. Ha interrotto una stasi, creando una discontinuità rendendola quello che è, una richiesta d’aiuto.
Le sue azioni sono attraversate da una insistente e impercettibile spinta, come le gocce che scavano il sottosuolo carsico, inarrestabili e delicatissime, quell’insistente e ineliminabile pulsare vitale che batte sotto il nostro tempo, il desiderio che la vita e l’essere riaccadano e si mostrino, ed esserne parte. Un lavoro continuo sotto il nostro lavoro, una goccia che scava nel terreno, attraversa gli strati geologici e prima di cadere lascia una traccia che forma una magnifica stalattite che è lì solo per chi voglia andare a vedere in profondità.
Ma la cosa davvero curiosa è che lui si definisce scultore. Una volta gli ho detto che mi rendevo conto di come la fatica del mio lavoro fosse in parte sostenuta dall’immagine di un risultato che intuivo e intravedevo, appoggiandosi su qualcosa di materiale e persistente, confortante perché tangibile, e gli ho chiesto come vivesse la cosa, se e perché facesse delle performance, e se lo erano davvero, perché non lo sembravano neanche troppo.
Mi ha detto: “Non sono performance, perché la performance ha un’attinenza col teatro e la comunicazione, che a me interessano poco. Sono azioni, perché voglio che agiscano, come sono azioni quelle che uno scultore compie per cambiare la materia”
Allora io: “Sì, però che modifica è? Dura pochissimo, praticamente è inconsistente. Cosa cambiano?”
E quindi lui: “Cambiano me”
Alberto Montorfano
Media montagna, Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale, Urbino
TINA, Auditorium parco dellaMusica di Roma / MACRO, Roma
Greenit, Galleria Francesca Antonini arte contemporanea, Roma - Propoli, Galleria il Segno, Roma
6 candele, expo 2015, Nutrire il pianeta energia per la vita, Milano
5
artisti in 5 atti, Viterbo
Anthropocene, Galleria Riccardo Crespi, Milano
Favi di miele, “Percorso della battaglia” Abbazia di Montecassino, Cassino
Nell'acqua capisco, the 55° International Art Exhibition Venice Biennale, Collateral Event
Start, Saatchi Gallery, London
Art is Real, Piazza Pasquino, Rome
It is not easy/Non è facile, Spazio Fandango Incontro, Rome
Ostrale 013, International Austellung, Zeitgenössischer Künste, Dresda (D)
Ente Comunale di Consumo, Galleria Nazionale di Cosenza Palazzo Arnone, Complesso Monumentale del Vittoriano, Rome.